Riflessioni sulle nuove “Indicazioni nazionali 2025 per la Scuola dell’infanzia e primo ciclo.”

Le Nuove Indicazioni Nazionali 2025 sono state rese pubbliche l’11 marzo e hanno immediatamente suscitato reazioni fortemente critiche da parte di molte associazioni professionali e disciplinari. Come laboratorio scuola della Fondazione Massimo Fagioli vorremmo proporre alcune osservazioni a questa proposta normativa.

 

L’idea dei bambini e dei ragazzi

Prima di tutto ci interessa focalizzare l’attenzione sull’idea di bambino e di bambina e poi di ragazzo e di ragazza che emerge dal testo.

Nel suo insieme il documento presenta un impianto pedagogico apparentemente composito; i riferimenti a didattiche progressiste e attive, dove si allude all’importanza della libertà dei ragazzi o all’apprendimento cooperativo, si alternano a passaggi squisitamente conservatori dove la conoscenza è sempre qualcosa che si trasmette e si acquisisce, ma mai che si costruisce e tanto meno che si co-costruisce. È però possibile rintracciare una coerenza nei riferimenti frequenti all’idea di bambino o bambina come soggetto passivo, che quindi può solo essere riempito di nozioni che non può costruire ma solo acquisire come depositi di informazioni. La figura del maestro è quella di un modello a cui ispirarsi, l’apprendimento, di conseguenza è visto come un atto di assimilazione. 

Sono molti i passaggi in cui viene presentata un’immagine dei bambini e dei pre-adolescenti quantomeno deformata. Si legge, infatti a pag. 9 del documento:

Va spiegato a bambini e preadolescenti, anzitutto da parte dei genitori, che la nostra Repubblica ha posto la scuola al centro del suo progetto di Paese e che la scuola è un bene sociale comune di inestimabile rilevanza, da tutelare e valorizzare, a cominciare dalle parole usate per parlarne. Dileggiare una scuola, sporcarne le pareti, distruggerne gli arredi, offendere un insegnante, non sono solo azioni eticamente riprovevoli, da condannare e stigmatizzare anche con la richiesta di risponderne da parte delle famiglie, ma sono i segni preoccupanti di un cedimento valoriale del rispetto e della fiducia dovuti all’istituzione culturale più importante del nostro Paese e alle persone – dirigenti e insegnanti – che hanno scelto di spendere la propria vita in queste istituzioni al servizio delle nuove generazioni.

Così come maxima debetur puero reverentia è anche: maxima debetur magistro reverentia.

Nel testo viene dato per scontato che sia necessario spiegare ai bambini e ai ragazzi il valore della scuola come se questi non fossero in grado di comprenderlo in modo autonomo attraverso l’esperienza quotidiana, come se non avessero la capacità di cogliere il senso profondo del luogo che frequentano ogni giorno per molte ore. Al contrario, si ritiene necessario sottolineare che le cosiddette “azioni deplorevoli” non devono essere commesse come se questa rappresentasse la modalità di azione che caratterizza i bambini e i preadolescenti, evidentemente considerati naturalmente portati a distruggere e a rovinare l’ambiente che li circonda. Si tralascia di ricordare che prima di tutto ci dovremmo preoccupare di accogliere gli studenti in edifici confortevoli e non fatiscenti, bisognerebbe partire da noi adulti come esempio di persone che curano gli ambienti rivolti a bambini e adolescenti, intesi come ambienti fisici e, soprattutto, come ambienti umani. A questa prima proposizione si aggiungono due passaggi il cui contenuto troviamo estremamente preoccupante: 

Le scuole del primo ciclo di istruzione permettono inoltre, grazie all’educazione alla libertà, lo sviluppo del senso morale e la comprensione del principio di autorità, conquiste interiori dell’uomo libero. L’educazione alla libertà, infatti, non è sviluppo dello studente nella libertà, ma sviluppo della libertà nello studente. Grazie al lungo allenamento all’autogoverno garantito negli anni di frequenza scolastica, e in virtù delle ‘regole’ (regole di comportamento, ma anche regole tratte dai contenuti e dai metodi delle stesse discipline, come, p.e., le regole di grammatica), l’allievo interiorizza il senso del limite e un’etica del rispetto verso il prossimo, gli anziani, i più deboli, che ha nella solidarietà e nella fraternità due luminosi fari di orientamento.

Si intende, quindi, che l’azione della scuola e, soprattutto dell’apprendimento, dovrebbe essere volta ad addestrare al rispetto del limite insistendo sull’idea del sapere come strumento per contenere e ingabbiare il bambino e l’adolescente che lasciato a sé stesso sarebbe distruttivo e privo di ogni pensiero valido. Si sottolinea la necessità di insegnare un rispetto per l’altro come se i bambini non fossero in grado di realizzare rapporti costruttivi. Questa immagine deformata dei bambini e degli adolescenti emerge in modo manifesto dal passaggio successivo: 

Peraltro, interiorizzare il senso del limite aiuta a evitare la deriva della hybris, della tracotanza, spesso diffusa in bambini e adolescenti figli di famiglie con gravi povertà educative, messi al centro di dinamiche affettive iper/ipoprotettive che li rendono ‘piccoli tiranni’ o, all’inverso, fragili prede di dinamismi bullistici

[def. di Hybris: presso gli antichi greci l’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a presumere della propria potenza e fortuna e a ribellarsi contro l’ordine costituito, sia divino che umano]

Evidenziamo la connotazione discriminatoria e deterministica di questo passaggio. Non è difficile far risalire le origini teoriche dell’impianto psico-pedagogico del documento ai contenuti esplicitati nel libro “Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo di E. Galli della Loggia e di L. Perla il primo coordinatore della sezione di storia la seconda coordinatrice scientifica della commissione per la redazione delle Nuove Indicazioni Nazionali. A  pag. 39 dello stesso libro in riferimento alla scuola leggiamo “…. se essa in quanto tale non serve a umanizzare gli individui, a strapparli alla loro potenziale ferinità per inserirli in un consorzio umano degno di questo nome, allora a cosa serve?”. Ritorna, di nuovo, l’idea di bambino/adolescente non-umano, “ferino” per sua natura portato a distruggere ciò che lo circonda e che per questo deve essere sempre controllato, plasmato, civilizzato, “educato”. Emerge quell’idea di educazione intesa come addestramento che Massimo Fagioli criticava nell’intervista alla Rai nel lontano 1978, idea secondo la quale il bambino va plasmato da capo, come se non avesse alcuna situazione di rapporto con la realtà” e quindi potenzialmente pericoloso. Fagioli nella stessa intervista propone un concetto di  “educazione nel senso dello sviluppo del bambino” che favorisca quindi la sua crescita e la sua evoluzione. Ritroviamo in queste parole dei contenuti molto vicini a quelli proposti dagli autori della tradizione della scuola progressista (Dewey, Freinet, Cerini, ecc) che sono stati gli ispiratori delle precedenti indicazioni Nazionali del 2012 e poi delle Linee Guida 0-6 del 2021 e che il nuovo documento intende cancellare del tutto.  Per evidenziare la differenza tra le due cornici normative si riporta un passo delle Linee guida 0-6:

I bambini hanno un forte interesse per gli altri bambini e sono in grado, anche precocemente, di instaurare con loro rapporti affettivi, cooperativi e di scambio che costituiscono una leva importante per lo sviluppo della socialità e degli apprendimenti.

I bambini sono attori competenti della loro crescita, co-costruttori di significati insieme agli adulti e agli altri bambini; pertanto, va preso in considerazione il loro punto di vista e vanno coinvolti nei processi decisionali che li riguardano.(cit. 2 – I bambini e le loro potenzialità)

Si rileva, inoltre che nelle NIN ci si riferisce alla libertà come qualcosa a cui i bambini devono essere ‘educati”, storpiando la proposizione del pedagogista brasiliano Paulo Freire che parlava di educazione come “pratica di libertà” poiché intendeva la libertà come una dimensione che si agisce e non si acquisisce. Ricordiamo, inoltre, che Freire accompagnava l’idea di pratica della libertà con il concetto di coscientizzazione quale presa di coscienza di sé stessi in rapporto agli altri e alla società. Queste due concetti possono essere messi in relazione a quanto scriveva Massimo Fagioli sul rapporto necessario tra identità e libertà. Secondo Fagioli, infatti la libertà è costruttiva tanto quanto deriva da dall’identità intesa innanzitutto come identità interna, concetto più complesso di quello freiriano di coscientizzazione. È possibile, in questi termini pensare all’educazione come pratica della libertà di esprimersi, di crescere, di conoscere e rapportarsi agli altri, a patto che si riconosca nei bambini e nelle bambine un’identità valida e che il rapporto con gli insegnanti sia finalizzato a sostenere questa identità che permetterà loro di agire in modo libero.

L’idea di insegnante

Ad un’immagine passiva e pericolosa dei bambini e degli adolescenti come emerge dal documento del MIM, non può che corrispondere un’idea di maestro come un “modello” a cui uniformarsi. Il maestro “modella” il bambino/adolescente che è visto come vaso da riempire di contenuti; egli impara solo tramite il maestro che è il “magis”, come si legge a pag. 9 delle NIN. Non è pensata una proposizione attiva del bambino e dell’adolescente poiché non è riconosciuta una sua identità valida che deve limitarsi, in questo caso, a “prendere” la sapienza del maestro. Riteniamo che sia da rifiutare questa immagine di insegnante che rimanda a dinamiche nocive nei confronti dei bambini e dei ragazzi. È infatti difficile non pensare a quanto Massimo Fagioli scrive nel libro La marionetta e il burattino «La situazione di rapporto maestro-allievo nella quale si possa considerare una passività ed un’obbedienza, va visualizzata come rapporto sadomasochistico in cui il Maestro si costituisce come sadico e l’allievo come masochista: il maestro è paralizzante, l’allievo è paralizzato».

Se facciamo riferimento all’etimologia del verbo educare, dal latino educere cioè tirare fuori, trarre fuori, educare è l’esatto opposto del concetto di plasmare o riempire l’alunno di contenuti morali e identitari.

Sottolineando che la relazione educativa nelle NIN appare unicamente come azione direttiva da parte dell’adulto, educatore o insegnante, nei confronti di bambini e ragazzi, pensiamo che il docente non debba essere un trasmettitore, ma, dovrebbe proporsi come “attivatore della conoscenza” e che  questo può avvenire solo se c’è una relazione docente/alunno di tipo affettivo ricordando che la didattica è fatta di due dimensioni che non possono essere separate: la relazione e l’apprendimento.

Il punto cardine intorno al quale ruotano le riflessioni del gruppo scuola della Fondazione Massimo Fagioli considera la conoscenza come tratto fondamentale della realtà umana: «Forse quello a cui non ci si può opporre è la realtà della conoscenza; se ci si oppone alla realtà della ricerca e della conoscenza, l’individuo muore, perché si lede, la specificità, scusate le parole, della specie umana che è la ricerca e la conoscenza, il sapere!» (Massimo Fagioli, Storia di una ricerca. 2019

Una visione della scuola come quella che emerge dalle NIN potrebbe, quindi, ledere la specificità della realtà umana proprio perché si oppone ad un’idea di conoscenza come ricerca proponendo un’idea di sapere come imposizione e trasmissione di concetti.

Al contrario la scuola dovrebbe aiutare a preservare la naturale curiosità dei bambini e degli adolescenti a conoscere la realtà che li circonda in quanto dotati fin dalla nascita della capacità di elaborare gli stimoli esterni in modo personale e creativo. Occorre tutelare e dare gli strumenti per sviluppare qualità  naturalmente presenti come socialità, creatività, capacità di amare gli altri e di conoscerli.

L’idea di società

Se, come noi pensiamo, l’idea di scuola deriva dall’idea che abbiamo di società e, quindi, dall’idea di essere umano, rintracciamo nel documento pubblicato dal MIM l’11 marzo, un’idea di società e di essere umano molto lontana dalla visione che noi abbiamo degli esseri umani e delle loro relazioni sociali, una visione improntata a rapporti interumani la cui natura originaria è profondamente non violenta.